Articolo scritto da: Silvana Carcano
Il concetto di sostenibilità
Il termine “sostenibilità” viene usato per la prima volta nel 1793 quando in Germania il professor Hans Carl von Carlowitz declinò questo concetto per spiegare ai governanti prussiani del suo tempo l’uso sostenibile della risorsa naturale del legname, indicando un tasso di taglio degli alberi che permettesse la possibilità di continuare a usufruire del legname anche per gli anni successivi. Quel termine poi cadde in disuso e non venne più utilizzato fino all’uscita del Rapporto Brundtland (Our Common Future) nel 1987, in cui si definì lo sviluppo sostenibile come quello sviluppo capace di soddisfare i bisogni della generazione presente senza compromettere quelli delle generazioni future. Si trattava, quindi, di una sostenibilità ‘intergenerazionale’.
Il 25 settembre 2015, i 193 Paesi membri dell’ONU hanno adottato l’Agenda 2030 per uno sviluppo sostenibile. In vigore dal 2016 con i suoi 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (Suistainable Development Goals, SDGs), l’Agenda è diventata il quadro di riferimento globale per lo sviluppo sostenibile. Con questo cambio di passo, si introduce anche una declinazione ‘intragenerazionale’ della sostenibilità, in quanto lo sviluppo sostenibile non è possibile se non c’è un’equa distribuzione di risorse in un dato momento. Infatti, l’Agenda 2030 dell’ONU introduce molti nuovi risvolti di tipo sociale, non presenti nei precedenti Millennium Goals. Ad esempio, la necessità di ridurre l’ineguaglianza all’interno e fra le nazioni, di porre fine alla povertà e alla fame nel mondo, di raggiungere l’uguaglianza di genere, equa e inclusiva, etc.
Un concetto di sostenibilità, dunque, sempre più definito e ampio, e che si sta imponendo con sempre maggior forza come priorità dei governi, delle comunità locali, delle imprese. Si è pensato a lungo, inoltre, e lo si pensa a volte ancora ora, che uno sviluppo, per essere sostenibile, dovesse basarsi su tre aspetti (come si dice, tre ‘pilastri’), tre dimensioni fondamentali per verificare, misurare, controllare e sostenere l’impegno in termini di sostenibilità di una impresa, oggi declinati nei criteri ESG:
- quello ambientale, il cui capitale naturale riguarda gli ecosistemi, le risorse naturali, la biodiversità, etc.
- quello sociale, in cui si considera il capitale umano come parte della società con un impatto e una relazione con il territorio, con le persone, con i dipendenti, i fornitori, i clienti, etc. (esempio: formazione, pari opportunità, sicurezza sul lavoro, diritti umani)
- quello economico, il cui capitale economico riferisce alla gestione aziendale ispirata a buone pratiche e a principi etici (esempio: trasparenza delle decisioni e delle scelte aziendali, valore economico generato e distribuito, prassi di approvvigionamento, anticorruzione…).
I tre pilastri possono essere considerati ugualmente importanti e si intersecano tra di loro in spazi di differente significato. Ancor oggi, qualora uno dei pilastri prevalga sugli altri, si realizza uno squilibrio che mina la sostenibilità (ad es., quando un’organizzazione presta attenzione al solo ritorno economico).
Ultimamente, si sta facendo largo l’idea che, senza un ulteriore ingrediente, gli altri tre non riescano a stare assieme in modo efficace. Si parla, quindi, del ‘quarto pilastro’, quello culturale. Si intende con ciò che la cultura, con la sua capacità di testimoniare od orientare i modi di pensare, le scelte e le azioni, sia un po’ come il motore dello sviluppo sostenibile.
Non solo, a dare impulso a un nuovo sviluppo sostenibile si è aggiunta un’istituzione di grande influenza come quella papale, con l’enciclica Laudato sì, e i numerosi studi che ne sono seguiti, volti a evidenziare, come sostiene il prof. Becchetti1, che «una società che contrappone soltanto i due principi della libertà e dell’eguaglianza, dimenticando la fraternità, rischia paradossalmente di diventare una società disumana».
L’etica, quindi, come fondamento senza il quale non si può raggiungere la sostenibilità.
Secondo lo sguardo più attento dei ricercatori dell’Università di Jyvaskyla, in Finlandia, la cultura può essere letta in base a diverse punteggiature in rapporto alla sostenibilità:
- può venire intesa come il quarto pilastro (culture in, cioè la ‘cultura nello sviluppo sostenibile’)
- oppure assumere il ruolo di mediatore degli altri tre pilastri (culture for, cioè la ‘cultura per lo sviluppo sostenibile’)
- ancora, divenendo il fondamento su cui si basa la sostenibilità (culture as, cioè la ‘cultura come sviluppo sostenibile’).
Anche l’ONU attribuisce rilevanza all’aspetto culturale, al punto tale che la sua Agenzia per l’Educazione, la Scienza e la Cultura, l’UNESCO, ha stilato un documento corposo per gli indicatori tematici sulla ‘Cultura 2030’, il cui obiettivo è quello di supportare e integrare gli indicatori globali concordati all’interno dell’Agenda 2030 per misurare il contributo della cultura all’attuazione nazionale e locale dei 17 SDGs.
Un ulteriore studio di grande successo2 definisce delle condizioni propedeutiche senza le quali non è possibile immaginare uno sviluppo sostenibile e il raggiungimento della sostenibilità: si tratta del ‘modello della ciambella’ (doughnut economics), nel quale all’interno dello spazio sicuro ed equo in cui può prosperare l’umanità vengono soddisfatti tutti i bisogni di ogni persona (cibo, acqua, alloggio, lavoro, sanità, istruzione, giustizia, etc.), salvaguardando simultaneamente il mondo vivente dal quale dipendiamo, cioè, i nove confini planetari del tetto ecologico che non possiamo sconfinare. È uno studio che offre una semplicità di visione rispetto alla complessità del mondo in cui viviamo e in cui un ruolo fondamentale è giocato dalla capacità di investire in cultura per coltivare un nuovo disegno dell’economia, dell’uomo economico e di ciò che serve all’umanità: una cultura rigenerativa e distributiva, per raggiungere la quale è necessario un nuovo quadro di riferimento culturale in cui vi sia una propensione al cambiamento, all’interdipendenza, alla riconoscenza sociale, alla collaborazione e alla creazione di reti relazionali.
La cultura in azienda
I comportamenti sono la parte visibile di fenomeni sociali e psico-sociali ben più complessi. I comportamenti hanno radici nell’individuo (le sue motivazioni, i suoi valori, le sue competenze, ecc.) e nel suo intorno sociale (interazioni con altri, collaborazione, comunicazione, ecc.).
Affinché i comportamenti e le decisioni siano orientati alla sostenibilità, svolge un ruolo importante la cultura organizzativa.
Lo studio dei comportamenti di sostenibilità è un settore relativamente nuovo, vi sono diversi articoli scritti da ricercatori, accademici o consulenti che investigano sulle correlazioni tra le numerose variabili culturali aziendali. Non solo, alcuni studi dimostrano come la corporate sustainability performance sia strettamente correlata con gli aspetti culturali.
Ciò che caratterizza gli studi nel campo della sostenibilità aziendale è il fatto che per ragionare e raggiungere obiettivi in tema di sviluppo sostenibile, le aziende devono far maturare al proprio interno la consapevolezza sull’importanza degli obiettivi ambientali e sociali, in aggiunta a quelli economici: devono, cioè, favorire un contesto culturale appropriato per promuovere la sostenibilità, un set di valori condivisi, compresi e incorporati nell’organizzazione, relativi ai cambiamenti strategici per allineare la sostenibilità alle performance organizzative.
In conclusione, sebbene la cultura rimanga uno dei concetti più fragili nel dibattito accademico sulla sostenibilità, la strada è segnata: non è più immaginabile lo sviluppo sostenibile a tre pilastri, la cultura ricopre un ruolo strategico e, fortunatamente, l’Agenda 2030 lo evidenzia senza possibilità di fraintendimenti.
- Docente ordinario di Economia, all’Università di Roma Tor Vergata ↩︎
- L’economia della ciambella. Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo, di Kate Raworth, Edizioni Ambiente, Milano 2017. ↩︎